I poeti e altri animali – Sui rapporti recenti tra poesia e narrativa e a proposito di un romanzo scritto da un poeta: Animale di Giuseppe Nibali

 

Mi è capitato in due occasioni di presentare Animale (Italo Svevo Edizioni) durante l’estate 2022, pochi mesi dopo la sua uscita: prima a San Mauro Castelverde, ben protetti all’interno del Festival di poesia Paolo Prestigiacomo, e poi a Palermo, entrambe in compagnia dell’autore, e la seconda in tre con Noemi De Lisi. E ogni volta ho voluto per prima cosa allargare il campo rispetto a una questione teorica e pratica che accompagna alcune scritture: Nibali è infatti uno di quegli autori in versi che a un certo punto dalla poesia fanno un salto e approdano alla narrativa e al romanzo, accettando insomma di giocare secondo altre regole. Un’attitudine che in realtà sembra essere più diffusa oggi che nel Novecento, durante il quale in Italia, a parte i casi conclamati di Pasolini e Pavese, non mi risultano molti grandi poeti che siano stati anche grandi narratori (e viceversa). Oggi è appunto cosa piuttosto consueta, e di certo si collega anche alla perdita di mandato sociale e di pubblico della poesia, e quindi a un desiderio legittimo di maggiore riconoscimento, mentre più raro e subalterno è il movimento opposto, dal romanzo ai versi (penso a Michele Mari, che ha spesso come poeta qualcosa di involuto e artificioso, come un divertissement ritagliato all’altro tempo da scrittore). Ho in mente l’orizzontalità di certe scritture poetiche dalla vocazione neo-epica, che costituisce già una forma di compromesso tra le due istanze in gioco, così come la verticalità e densità di certi testi prosastici (almeno a partire dai Vociani) empiricamente “ricevut[i] come poesia” (Zublena), ma qui vorrei considerare proprio il passaggio dai versi alla prosa e a un livello fictionale che richiede come mezzo una certa figuralità su larga scala (anche lì, empiricamente riconoscibile, se non altro per quello scatto emotivo che ci fa pensare: e qui comincia, in qualche modo, un’avventura). Al tempo stesso e in linea di principio, proprio questo passaggio da un piano all’altro dovrebbe mostrare le possibilità ulteriori del linguaggio poetico, che comporta anche una certa logica di costruzione dell’opera, e quindi alla domanda: cosa farne del linguaggio poetico? si potrebbe benissimo rispondere: non per forza un libro di poesia. Ma il romanzo di uno scrittore che si è già espresso in versi avrà delle caratteristiche riconoscibili, individuabili? Magari dentro il percorso di alcuni poeti sembrerà quella romanzesca soltanto una divagazione non necessaria, mentre per altri risulterà invece proprio la poesia un acerbo sfogo puerile al confronto di una raggiunta distensione narrativa. Nei casi più coerenti, poesia e romanzo diventeranno forse le due facce della stessa spasmodica ammaccatissima medaglia (e così in certe pagine di romanzo si può percepire, come vaporizzata, la poesia che l’autore poteva scrivere e non ha scritto, come in alcuni libri in versi risalta la filigrana di una storia non raccontata).

Prima di Nibali mi vengono in mente diversi poeti recenti che hanno poi preso con decisione la strada della narrativa, alcuni proprio nel segno della continuità stilistica, come Andrea Inglese, che ha due romanzi all’attivo e certamente nel primo, Parigi è un desiderio (Ponte alle Grazie, 2016), adottava ancora quel movimento centripeto, elencatorio, ossessivo che è tipico della sua scrittura poetica (agonismo stilistico e cognitivo rispetto alla – e per superare la – “calamità autobiografica” già annunciata nel libro in versi La distrazione e quindi trascinata nel campo dell’autofiction). Altri autori della prosa in prosa (Broggi, Bortolotti) sembrano avere brillantemente forzato i limiti autoimposti del frammento, lavorando per così dire sui fianchi del narrativo, sempre con rivendicata marginalità e insofferenza rispetto al genere romanzesco (di questa insofferenza dirò tra poco). La stessa De Lisi, che è apprezzata autrice di racconti con un romanzo in dirittura d’arrivo, con il verso lungo di La stanza vuota (Ladolfi Editore, 2016), e i personaggi, e i dialoghi, sembrava già mostrare che quella stanza poetica era anche l’anticamera di un’altra idea di scrittura. Altri poeti hanno saputo scrivere racconti (Montieri, Gezzi), ma la differenza tra questi e il romanzo aprirebbe un nuovo fronte problematico, tanto più che spesso, quando si dice racconto, si tratta ancora una volta di prose brevi o brevissime, sconfinamenti rispetto al verso di un certo peculiare immaginario ossessivo (in questo senso, Sonno giapponese di Galloni, Italic Pequod, 2019). Una sorta di giallo lo ha scritto Vincenzo Frungillo (Un nome in meno, Ensemble, 2019), già interessato come critico e teorico ai ritorni della narratività dentro le forme della poesia (Il luogo delle forze, Carteggi Letterari, 2017). Damiano Scaramella, poeta da molti stimato se pure in assenza di un libro edito (peraltro con una estetica del cupo e del cadaverico che molto ha in comune con Nibali), ha di recente esordito con NN Editore (la stessa di Andrea Donaera) con un romanzo il cui plot sembrerebbe inserirsi, almeno per temi e coloriture, nel solco riconoscibile di una certa narrativa siciliana. Partiva dalla poesia Valentina Maini, e guardando poeticamente attraverso le fenditure di una Casa rotta (Arcipelago Itaca, 2016) ha poi raccontato nell’arco di cinquecento pagine i fantasmi di una famiglia, la violenza e la follia, il punto cieco del trauma (La mischia, Bollati Boringhieri, 2019, un romanzo in effetti sorprendente anche per come l’autrice è passata in così poco tempo a misure testuali più o meno abissali). È in qualche modo un caso a parte Gilda Policastro, di cui dirò tra poco, per i presupposti teorici e polemici su cui fonda la propria scrittura romanzesca, ma davvero a pensarci il quadro si affolla di autori che hanno giocato sui due tavoli, con lieta alternanza (Nove, Pugno, Scarpa), raggiungendo anche in poco lo star system dei narratori (Calandrone in quota Strega), per quanto l’immagine corriva del poeta-romanziere resti per lo più quella di una chimera indecisa tra la comfort zone versale, talvolta percepita come asfittica, e l’angoscia della pagina bianca, che in un romanzo è sempre quella successiva. Pochi giorni fa Giulio Mozzi (curatore di scritture altrui, ma soprattutto autore di racconti suoi e di un romanzo recente – Le ripetizioni, Marsilio, 2021- ostentato come composito ed eterogeneo, e anche, in dose minore, scrittore di versi) ha riportato in un post su Facebook alcune idee di Daniele Del Giudice a proposito del narrare (saggio appena riproposto da Einaudi), nel quale Del Giudice, che non ha “mai scritto un verso”, lamenta l’assenza di una lingua narrativa italiana che non sia “la lingua delle traduzioni” o la lingua della nostra tradizione poetica che confluisce nella prosa come al secondo grado, a condizione cioè di farne “una grande cerimonia” o al contrario “di trasgredirla”. Se così fosse, non potrebbe semplicemente essere questa, e cioè il dialogo con i secoli della poesia, la vera caratteristica peculiare della nostra lingua narrativa (e la dislessia poetica inadatta al romanzo indirizzarne invece l’originalità e la forza)? E in quel caso, non sarà che i poeti-romanzieri fanno esperienza sulla propria pelle, e platealmente, di un confronto che ogni narratore dovrà comunque fare, almeno intimamente, segretamente?

Allora, diciamo questo: passare dalla poesia al romanzo costa fatica perché implica (oltre che una conquistata diffusività) un cambio di statuto del gesto creativo, e cioè un diverso uso della figuralità e quindi della letterarietà. Per quanto siano frastagliati e contaminati i rapporti tra le tipologie testuali, da un testo poetico mi aspetto più che da un romanzo una densità di figure che ricadano nel campo classico dell’elocutio (e su tutte la metafora), da un testo narrativo mi aspetto una maggiore figuralità sul piano della dispositio (l’ordine della storia e il trattamento del tempo) e dell’inventio (le situazioni narrative, i personaggi). Direi allora che un romanzo che possiamo per comodità definire tradizionale (ci si muove com’è inevitabile anche attraverso le categorie del senso comune) comporta una certa quota di rinuncia rispetto a quello che è stato insieme il privilegio conoscitivo e l’aspetto regressivo del linguaggio poetico prevalente degli ultimi due secoli, e cioè il pensiero analogico portato oltre un certo limite, e dunque la possibilità di riunire in poco spazio (lo spazio di una sostituzione, la parola su cui insiste il tropo, ma anche la giustapposizione di immagini più o meno incongrue)  mondi lontani e virtualità dell’essere, condensando quello che la narrativa distende. Tendenzialmente il romanzo moderno è questo: raccontare una storia per volta, talvolta storie abissali, digressive, multiprospettiche (2666 di Bolaño ne è forse il caso estremo, con i cinque titoli che lo compongono), ma comunque dotate di una coerenza e unità diegetica, a discapito delle infinite altre storie possibili (lo stesso Bolaño auspicava a quanto pare una lettura in ordine sparso delle parti del suo capolavoro, ammettendone di fatto l’autonomia, lo svincolo dall’insieme). Questo è un romanzo per il senso comune, questo ci aspettiamo da un romanzo, una sola storia che parta da un punto dello spazio e del tempo e ci conduca a un altro punto di quel reticolo immaginario. E allora per essere romanzieri nell’accezione più attesa bisogna sopportare qualcosa come – lo dico in un modo che suona un poco brutale, con il linguaggio di certa psicanalisi – una castrazione. Che in psicanalisi significa perdere qualcosa per accedere a un livello diverso, a un altro tipo di soddisfazione; mentre per uno scrittore significa accettare che un romanzo non possa raccontare tutte le storie possibili: ne sceglie invece una, e in qualche modo la porta a termine.

Spesso non è poi andata esattamente così, e direi che l’insofferenza verso una storia per volta si è manifestata in tutta la sua forza con l’OuLiPo in Francia (il condominio perecchiano, struttura moltiplicatrice del narrativo), e da noi ha dato i suoi frutti con l’ultimo Calvino (che era a sua volta nell’orbita dell’OuLiPo), quello delle città invisibili, dei destini incrociati, e con buona parte della letteratura sperimentale, secondo insomma l’idea che un libro possa e debba contenere in modo combinatorio tutte le possibilità del narrare (e quindi della realtà). Dicevo prima che Gilda Policastro è un caso particolare di poeta romanziere perché osteggia, in modo pugnace e militante, una narrativa di tipo lineare, tradizionale, tirando molto la corda del patto con il lettore, ma sfruttando all’occorrenza un carattere evocativo di codice, un pathos di genere. Il suo La parte di Malvasia (La nave di Teseo, 2020) è di fatto un giallo problematico che alla fine va in pezzi, fuoriesce dal solco narrativo, diventa altre cose (tutte scaturite dal trauma di partenza, dal punto di sparizione che si chiama Malvasia ma potrebbe avere infiniti altri nomi), mentre in una bella recensione a Tutte le camere d’albergo del mondo di Gherardo Bortolotti (Hopefulmonster, 2022) difendeva quella prosa narrativa, polimorfa e appunto analogica che prosegue il discorso della poesia con altri mezzi, contro la costrizione del romanzo che si è dato un qualche limite, che ha accettato di perdere qualcosa. E invece già il titolo Tutte le camere… esprime la speranza che nessuna di quelle camere esperite sfugga alle reti della mimesi, così come il precedente di Bortolotti, Romanzetto estivo (Tic Edizioni, 2021), sotto l’apparenza inerme dell’understatement, confermava una rivendicazione di non appartenenza al romanzo in sé e per sé, un desiderio di tirarsene fuori per assumere invece il diritto “a ricominciare le storie, a moltiplicarle, a non lasciarle scadere consumare estinguere in quell’unica storia che, come diceva Manganelli nello scritto sul romanzo, uccide tutte le altre storie possibili (“di che si saran parlati i bravi, andando a quel bivio?”). In questo, più poeta che romanziere [corsivo mio], Bortolotti, o romanziere ma non nel senso corrivo della scrittura ridondante e prona agli eventi, bensì nel segno di un rinnovamento della forma attraverso la sua dissoluzione, ovvero la messa in atto perenne della sua inutilità e gratuità” (G. Policastro). Si capisce che Policastro, come anche Manganelli, ne fa legittimamente una questione di giudizio di valore, tutto a favore della narrativa proteiforme, molteplice à la Bortolotti contro il racconto di una storia per volta e in antitesi a una scrittura “prona agli eventi”.

Io credo banalmente che ci sia qualcosa da ammirare in entrambe le direzioni, tanto più che la seconda, quella che semplificando ho definito tradizionale, è forse ancora più difficile da seguire, per le ragioni dette, se provieni dal campo della poesia. E allora diciamo subito (anzi, finalmente) che il romanzo di Giuseppe Nibali è il romanzo di una storia per volta, e quindi esaudisce le attese di chi si aspetta un’opera di narrativa. Il pensiero analogico ritorna poi massicciamente ma in una forma degradata, perché il protagonista (che si chiama come l’autore, in una sorta di illusione autobiografica problematizzata in una nota introduttiva) lavora nella pubblicità ed è continuamente preso dalla visione di link, video, reel (in cui è possibile riconoscere alcuni antieroi del web, talvolta sublimati da una fine tragica, come Omar Palermo) e da un continuo saltare di palo in frasca che è in effetti il linguaggio analogico coinvolgente ma non sempre brillante che ci propongono i social network. Il primo capitolo è un aggiornamento alla figura dell’ecfrasi, si rivela cioè come la descrizione del video eseguito da un drone in una zona di guerra, video che Giuseppe guarda durante un viaggio in pullman per tornare in Sicilia: Animale, Aleppo est, 2016 (e qui il romanzo stabilisce anche un dialogo a distanza con un recente libro di poesia: Bernardo Pacini, Fly mode, Amos Edizioni, 2020, ormai conosciuto come il “libro del drone”). Ci viene raccontato un passaggio di lupi, e poi le rovine, e il disastro di una città: “In mezzo ai due edifici doveva esserci un bazar, il tendone ha resistito finché ha potuto, poi ha ceduto sotto il peso delle macerie, e adesso se ne sta sulla strada, come un circo crollato sul pubblico. Una nuova via. Una nuova via è nata tra gli scheletri delle case” (p. 14): risuona l’Ungaretti di guerra, e in particolare quello dei Fiumi, in quel circo collassato come immagine del mondo squassato, e in questo avvio lo stile è molto icastico, rifinito, come se il poeta stesse oliando gli ingranaggi del narratore. Lo dice anche l’autore di sé stesso, si riconosce queste qualità formali, anche se per interposto videomaker (“Chi ha montato il video è uno bravo, ha occhio e orecchio per il poetico”), ma al tempo stesso riconosce la necessità di agitarle, metterle in moto, e l’ecfrasi si fa anche rispecchiamento, mise en abîme di un percorso di scrittura (“non ha immediatezza, il suo lavoro può annoiare”, p. 15). Quando però Giuseppe rialza la testa dallo schermo del telefono, l’illusione ecfrastica svanisce e scopriamo che tutta questa descrizione è anche una grande prolessi figurale di quello che avverrà, dell’incontro che lo attende: “Sta andando da suo padre. Finalmente potrà entrargli dentro la testa, scavare tra le macerie, separare le parti vive da quelle morte” (p. 16). Ho detto che questo libro racconta coerentemente una storia, ma appunto di quale storia si tratta? Animale è il romanzo di una riconciliazione, o meglio di una ricomposizione delle macerie del passato: un figlio, Giuseppe, parte da Bologna verso la Sicilia per raggiungere il padre, Sergio, che ha avuto un ictus. Questo è dunque l’itinerario del libro: si parte dalle macerie di una città per raggiungere le macerie di un padre.

Tra i salti analogico-virtuali che intrattengono il protagonista, si alterna il tragico con il frivolo e a un certo punto fa capolino anche Marco Giordano, concorrente di MasterChef per il quale giudici e autori del programma ritagliano facilmente il ruolo del simpatico citrullo. Il libro è però attraversato da tratti di elegante, severa sentenziosità che restituisce a Marco Giordano la nobiltà che (forse) si merita: “Quel ragazzo non sapeva cucinare e ha trovato qualcuno che glielo ha detto. Anche lui avrebbe voluto avere qualcuno che gli dicesse cosa sapeva e cosa non sapeva fare. Perché, pensa continuando a piegare mutande e calzini, bisogna impararla fin da piccoli, e bene, la sconfitta” (p. 119, e non sembra neanche esserci contrasto stilistico tra la gravità dell’assunto e la faccenda domestica che al di sotto si svolge). La sconfitta, intrecciata con la colpa, è uno dei temi di Animale. Si parla molto in questa storia di colpe dei padri che ricadono sui figli, e forse anche di colpe dei figli che risalgono verso i padri, dell’incapacità dei figli di perdonarli, ed è una catena che arriva fino al nonno di Giuseppe: “«Papà, ti ricordi come andava a finire la storia?». Sergio fa un cenno con la testa e si porta la mano sulla bocca, prima di iniziare a piangere pure lui, in silenzio. «Che la bestia si portava via mio padre»” (p. 137, e va da sé che in queste cose il terrore e lo sgomento nascondano l’ombra inconfessabile di un desiderio). A poco a poco scopriamo qual è la tragedia che ha segnato la famiglia del protagonista, che fine ha fatto sua madre, qual è il loro rapporto con la Sicilia dove Sergio, a un certo punto della sua vita, ha deciso di fare ritorno da solo, come per un richiamo ancora una volta simile a un rimorso (“gli raccontava di quanto lontana e triste, quanto disperata e sola, fosse la Sicilia”, p. 126). Ma che rapporto hanno invece Sergio e suo figlio? In breve, potremmo dire, un rapporto che non funziona: “la loro solitudine, l’unica cosa che resta anche quando sono insieme” (p. 122); “Non lo chiama papà, non lo chiama affatto, da anni, per questo il suo nome, mentre supera la glottide e arriva ai denti, viene fuori come vetro” (p. 55); “E per tutto il viaggio di ritorno, dall’ospedale a casa, di nuovo Giuseppe aveva pensato a suo padre come a un assassino” (p. 103, ruolo simbolico che, in ogni famiglia che si rispetti, risulta piuttosto interscambiabile). Ma il testo pone anche l’equivalenza esplicita tra padre e animale, sfruttando la polisemia del secondo termine: “A Giuseppe ricorda un animale ferito che viene soccorso, sempre incerto tra la fuga e l’aggressione” (p. 44); “Sua nonna sapeva fare un minestrone delle colpe, quelle di sua madre, che aveva «il sangue pazzo in testa», quelle di Sergio che l’amava veramente, ma come un animale” (p. 72). È dunque un padre che ha qualcosa di risentito spaventato involuto, ma è anche un padre dai tanti racconti che contrappone all’animalità il suo contrario, e cioè memoria con linguaggio, un fiume di parole che unisce le loro due solitudini, Colapesce, la mattanza dei tonni, la morte lungo il fiume dei cavalli sanfratellani (“Io non lo so perché i cavalli fanno piangere gli uomini”, p. 46). Da qui si vede bene come gli animali non siano solo metafora di una umanità marginale ed essenziale, ma letteralmente ossessionano la scrittura di Nibali, colti spesso nei loro momenti di sofferenza e agonia, come il tonno pescato nell’ennesimo video e filmato dal sub che si ritrova però a sua volta accerchiato dagli squali attratti dal sangue, sempre all’interno di una circolarità che lega i destini degli uomini e quelli degli altri esseri (“Ha avuto paura, come tutto ciò che è vivente”, p. 62). E per i lupi che compaiono all’inizio, un lupo che muore chiude il libro, e in questo lupo che arriva fino al Mediterraneo, “comportamento raro per la sua specie” (p. 139), c’è molto del figlio che si trascina fino all’isola delle origini, quasi contro la propria volontà cosciente. Ci viene poi descritta la morte di un diamantino, divorato dalle formiche, e un diamantino appare in sogno al protagonista e lo fissa “come gli avvoltoi guardano le carcasse” (p. 38), in una confusione tra chi debba essere la carogna che è tutto il gioco di simmetrie e rispecchiamenti che attraversa il testo (ed è forse traccia del passaggio dalla poesia al romanzo, che ad alcune metafore puntuali si sostituisca una metaforicità su larga scala, un sistema di corrispondenze?). C’era già nel libro precedente di Nibali (un libro in versi, Scurau, Arcipelago Itaca, 2021) questa attrazione per il disfacimento, per la consunzione dei corpi, e non c’è dubbio che questo autore si collochi nel solco di un’estetica millenaria del brutto e del cadaverico, le cui ragioni erano già state individuate da Aristotele: “Anche di ciò che ci dà pena vedere nella realtà godiamo a contemplare la perfetta riproduzione, come le immagini delle belve più odiose e dei cadaveri. La causa, anche di ciò, è che imparare è un grandissimo piacere” (Poetica, Laterza, 1998, p. 7, trad. Guido Paduano). Se insomma un cadavere visto nella realtà è un’esperienza che atterrisce, nella rappresentazione artistica ci dà invece una qualche forma di piacere che è appunto il piacere della conoscenza di poter guardare la morte attraverso un suo ritratto, al riparo dall’esperienza. Ma direi che tutte quelle morti di animali sembrano anche un modo per il figlio di immaginare e in qualche modo prepararsi alla morte del padre.

Di fatto il viaggio di Giuseppe è anche un rimettere in moto il tempo, collegando i ricordi al presente e il presente al futuro, o il presente diventa uguale al passato, immobile, perfetto e quindi privo di vita, come in un diorama. Uso una parola cara a Nibali, che già la usava in Scurau (“come fossero statue di rettile nel diorama”, p. 37), e la ripropone anche qui, a proposito di una visita fatta dal protagonista con i propri genitori al Museo di Storia Naturale di Milano (“fotografavi tigri e capibara dentro i diorami”, p. 113), e Diorama è anche il titolo di una recente opera in versi di Laura Di Corcia (Tlon, 2021): non sarà anche questo una narrazione, rimettere in movimento gli scenari congelati della memoria (e della lirica)? Ripercorro infine il gioco delle equivalenze, feroce come un animale, solo come un animale, inquieto come un animale, e aggiungo un’altra espressione idiomatica che il testo evoca senza esplicitarla: innocente come un animale (“Di innocenza gli parla. Che loro sono innocenti, dice, e che non è colpa di nessuno”, p. 112). Animale è anche un libro sul perdonare e sul perdonarsi, e sullo smettere di chiamare colpa tutto ciò che è stato un errore, nel senso proprio di perdere la pista, il sentiero, finire dove non pensavamo, cosa che di solito non succede agli animali, che hanno una guida infallibile che a noi manca (ma accade invece nel finale a quel lupo attratto dal mare, che sbaglia strada come un errore di cui aveva bisogno). Da pochissimo Nibali è poi tornato ai versi, con Eucariota (Samuele Editore, 2023), e la sensazione è che la lingua, non più narrativa ma nuovamente lirica, continui a battere nello stesso punto dove qualcosa maledettamente duole: “e senti dentro l’intarsio/ nella parte di minuscola stoffa e corda/ tornare ad assalirti la radice del tuo male/ una voce che soffoca e chiede perdono”. Per dire come a volte questi passaggi da una scrittura all’altra sono solo un modo per insistere con altri mezzi verso lo stesso obiettivo e speranza, e con figuralità poetica oppure romanzesca provare a rischiarare la radice del proprio male (che poi è tutto quello che molti di noi chiedono alla letteratura).

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